S. Silva Ramirez «Plimsoll Line» (Marghera, Venice, 2003)
Non siamo tutti sulla stessa barca
Non siamo tutti sulla stessa barca. Siamo stati e ancora ci troviamo nella stessa tempesta. Forse. Ma c’è chi la sta attraversando in zattera. Chi con la ciambella. E chi su un transatlantico. Ognuno con le proprie rotte. Ognuno con il proprio sestante. Ognuno con la propria capacità di leggere il vento e regolare vele e terzaroli. E soprattutto ognuno con il proprio carico. Un carico emotivo e cognitivo. Relazionale, sociale ed economico. Un carico che negli ultimi mesi si è mosso pericolosamente. Sbandando tra dritta e sinistra. Tra poppe e prue. Carichi sospesi per naviganti sorpresi a navigare in acque nuove. E non bastan due occhi per tenere d’occhio questi carichi.
Per questo chi va per mare conosce la Linea di Plimsoll. Ma anche chi sta a terra farebbe bene a conoscerla. Soprattutto se si occupa di carichi di mente e corpo.
Occhio alla Linea di Plimsoll
Parlamento britannico. 1870. Con un importante atto – di responsabilità prima che di legge – i deputati accolgono la proposta di Samuel Plimsoll. Questo politico riformatore aveva trovato una soluzione capace di ridurre in modo significativo il numero di incidenti navali dovuti al carico delle navi, spesso eccessivo quando pure mal distribuito. Quale soluzione? Dare un occhio al carico. No, non si trattava di un marinaio dallo sguardo acuto dedicato alla stiva o alla coperta. Si trattava di aggiungere sullo scafo un segno convenzionale – una marca di bordo libero – per indicare la linea di galleggiamento al massimo carico consentito. Un’indicazione che potesse considerare le differenti condizioni climatiche di navigazione, da cui trarre la misura del limite di sicurezza. A garanzia di una riserva di spinta al natante in funzione del carico e delle contingenze ambientali. Così, le autorità britanniche decisero di consentire l’accesso ai propri porti da quel momento in poi solo alle navi dotate dell’Occhio di Plimsoll. Ovvero: un occhio non solo attento, ma discreto. Non un occhio che guarda ma un occhio a cui guardare.
Da quel giorno e dall’intuizione di Samuel Plimsoll molte rotte sono state percorse. Molti carichi sono stati salvati. Da quel giorno è stato possibile tracciare rotte con un importante strumento in più. In mare e in terra.
Perché oggi, quando ci troviamo a domandarci quanto riusciremo a sostenere ancora il peso di questa navigazione a vista, dobbiamo pure noi guardare all’Occhio di Plimsoll. La parola sostenere deriva dal verbo latino sustinere, composto da sub- ‘sotto’ e ‘tenere’: reggere, portare su di sé il peso di qualcosa, sopportare, ossia tenere sopra un limite, e quindi sopportare, mantenere, mantenere il peso di, prendere su di sé un impegno. Riuscire a sostenere il peso emotivo e cognitivo della nostra condizione significa, in primis, essere capaci di garantire il rispetto dei limiti di sicurezza del proprio mezzo di navigazione. Considerate le condizioni di navigazione. Ovvero, mantenere l’onere della responsabilità: la capacità di rispondere con impegno del proprio comportamento.
Un peso da sostenere
Poter sostenere il proprio carico significa essere capaci – nel senso letterale di coloro che, comprendendo, sono abili ad agire – di vivere entro le capacità di carico del sistema di cui si fa parte. E tale capacità di carico deve considerare limiti naturali e limiti artificiali. Siamo persone che vivono in un sistema causale chiuso: la terra. Un sistema di interdipendenze che tendono alla stabilità, all’equilibrio e alla conservazione di quelle condizioni favorevoli alla vita e alla sua preservazione. A fronte di un evento che perturba tale equilibrio il sistema contrappone una reazione contraria e opposta al fine di contenere e annullarne gli effetti attraverso importanti processi di resilienza. Se poi tale perturbazione dell’equilibrio superasse le capacità di riassorbimento del sistema, lo stesso tenderebbe a creare un nuovo equilibrio basato sullo stesso evento perturbante. Oltre tale limite e nella peggiore delle ipotesi, il sistema potrebbe naufragare, collassare. La causa: un evento che porta il sistema stesso sotto il limite massimo di “sopportazione” del carico di perturbazioni.
Denaro, una difficile zavorra
Uno dei carichi più instabili che il genere umano ha imbarcato e dei cui movimenti in stiva è necessario porre maggiore attenzione di quella dedicata fino a ora è il denaro. L’iniqua distribuzione del reddito sta infatti devastando le economie di interi paesi. E non solo quei paesi cui chi sta meglio è solito guardare con distaccata pietà. Intere economie proprie a quei paesi che fino a ieri si sentivano più forti e avevano mercati stabili oggi traballano in balia delle onde.
«È il consumo, bellezza!», urlano i balenieri.
Il diabolico meccanismo della propensione al consumo. E la spinta al consumo è il vento che gonfia le vele. Anche e soprattutto dopo una bonaccia durante la quale non si è fatto il punto nave né s’è aggiustata la rotta. Ma solo inveito o pregato i numi perché tornassero a soffiare.
In questo, noi siamo come una nave in navigazione nel mare aperto: galleggiamo sopra la nostra esistenza e sussistenza. Ciascuno con il proprio carico.
Parole, pensieri e comunicazione
E nell’illusione diffusa del «Navigo, dunque so, no?».
E questo è l’altro carico instabile: la comunicazione. Navigare in rete oggi – tempo in cui la notizia si fa più rapida della materia – significa percorrere rotte proprie alla società dell’informazione. Ovvero, significa considerare la comunicazione non come valore in sé, bensì come una rete estesa in cui ogni agente è un attore di tale rete relazionale, sconfinata e interconnessa. Tuttavia, se oggi si considera, spesso acriticamente, la Rete come uno strumento di connessione – o meglio, lo strumento di connessione – spesso lo si fa non valutando opportunamente – o peggio, sottovalutando completamente – che la sua azione sembra quella di mancare sempre più quella separazione che divide inesorabilmente chi sa andar per mare da chi improvvisa. Il navigante deve infatti saper bene su quali risorse poter contare. A quante affidarsi. E quante consumarne senza correre il rischio di rimanerne privo prima di arrivare al porto. Deve saper amministrare al meglio la propria stiva e il proprio equipaggio. Deve saper conoscere la carrying capacity, la capacità di carico della propria nave.
Il concetto della capacità di carico applicato alla pratica della comunicazione obbliga una riflessione che considera non solo la quantità di informazioni o il numero di interlocutori che costituiscono la massa relazionale. Ma anche lo stile di comportamento di ciascuno. Il loro modo di consumare. Il generale flusso di informazioni generato dall’insieme delle loro interazioni. Tra produttori e consumatori come tra consumatori e mercato.
Ecco che torna la contemporanea linea di Plimsoll per la navigazione sicura, responsabile e sostenibile. Là dove non c’è una nave ma ognuno di noi. Là dove non c’è il mare ma l’universo delle parole, capaci di muovere i comportamenti. Parole che proprio in quanto onnipresenti nel tempo e nello spazio ben al di fuori dei loro propri confini opportuni e contestuali vengono sempre più violate, alterate e danneggiate, manomesse. Ed è proprio attraverso l’originale significato latino manumissio – in diritto romano, l’atto con cui il dominus proclamava la liberazione del suo proprio servo dalla schiavitù rinunciando nell’atto stesso alla potestà, la manus che aveva su di lui – che le parole devono essere liberate, riscattate, affrancate. Solo così facendo quello che sta sotto emerge: il significato originario, sincero, simbolico deve essere recuperato, issato a bordo, pulito dalle incrostazioni degli usi inappropriati che tali parole hanno subìto nell’eccessiva immersione nell’oceano della mistificazione. Le parole, soprattutto quelle che oggi troviamo immerse nel mare di Internet, vanno asciugate. Ricomposte laddove scheggiate nella loro robustezza delle origini. Ripensate nella loro contemporanea validità.
A scuola di navigazione
Proprio perché capaci di provocare comportamenti, le parole vanno usate nella piena consapevolezza del loro funzionamento. E chi ha il compito di portare a bordo della propria nave questi carichi di parole dense di sensi e di significati preziosi ha parimenti il dovere di proteggerle dall’occupazione piratesca, dalla loro manipolazione, dagli abusi dei loro usi. Tali capitani di lungo corso hanno l’obbligo morale di stare alla larga delle acque di Oceania che con i suoi flutti e sotto il dominio del bucaniere Winston Smith altera il senso della storia, la direzione del linguaggio, la capacità di intendere il pensiero, depauperandolo.
Le parole danno forma all’esperienza: sono il vento che gonfia le vele di ogni navigante, esperto o meno che sia. Ma è il navigante che deve tener d’occhio la linea di Plimsoll. E in questo, possiamo diventare tutti più esperti.
Nota: questo articolo è uscito nella rubrica Creattivamente di TouchPoint Magazine, nr. 5, 2021 (pp. 10-11).
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