C’era una volta… il piccolo villaggio di Natale. Sì, proprio il, mica un. Quel villaggio dove a Natale si è tutti più buoni. I vicoli e le strade risplendevano di luci colorate. Nell’aria si respiravano profumi di pan speziato. Ogni passo era avvolto da carezze di dolci appena sfornati. Ogni giro di lancette vedeva le piazze affollarsi di persone che scambiavano sorrisi e auguri. Auguri e sorrisi. Tutti felici d’incontrarsi. E di riconoscersi. Come se un’atmosfera magica avesse trasformato ognuno in una versione più gentile di sé stesso. Nella calda e accogliente casa di Ada, una ragazzina dai riccioli d’oro, la famiglia si stava preparando per la cena di Natale. Il padre cantava allegro mentre impastava il pane, tenendo d’occhio il rosolare sui fornelli. La madre aggiustava l’allineamento delle decorazioni sull’albero, oscillando testa e spalle in una danza silenziosa. Il fratellino Otto giocava entusiasta con i suoi nuovi regali. Scambiando sguardi d’intesa e complicità con Ebe, la sorella più grande, a ogni suo sollevar il capo dalla lettura di quel tanto atteso saggio che voleva approfondire per la sua tesi in management. Ada ascoltava quell’armonia rassicurante. C’era tutto. Ed era tutto perfetto. Come se la gentilezza fosse un contagio invernale diffuso nell’aria. Ma tutto questo c’era. Perché mica c’è più. Come spesso accade, quando ciò che appare lascia spazio a ciò che è. Dopo cena, Ada si ritirò nella sua camera. Una matita in mano, un foglio color latte davanti a sé.

«Caro Babbo Natale, oggi abbiamo aperto i doni che hai portato. Ed è stato un giorno meraviglioso. Ma… mentre guardavo intorno a me, mi son accorta che forse non tutti sono così buoni come sembrano. Ho visto rubare un biscotto dalla tavola dei dolci lasciando qualcuno senza. Ho sentito una risata invidiosa provenire dalla stanza accanto. Ho visto regali fatti per fare pace. E altri per un buon voto preso a scuola…».

Ada continuava a scrivere. E più scriveva più i propri pensieri si ribaltavano.

«Quindi, caro Babbo Natale… davvero trasformi le persone in individui migliori? O forse sei solo una grande illusione collettiva vestita di rosso?».

Mentre chiudeva con cura la lettera per sistemarla sotto l’albero, Ada si rese conto che la gentilezza non era automatica solo perché era Natale. La bontà richiede sforzo. Ha bisogno di consapevolezza. E del desiderio sincero di esser gentili. Così Ada decise che, per rendere davvero speciale quel giorno, avrebbe dovuto impegnarsi ad esser gentile ogni giorno dell’anno.

«Bisogna allenarsi a fare il bene: la generosità va manutenuta»

aveva letto poche righe prima Ebe

«Nelle relazioni professionali, ogni nostro interlocutore non è solo una risorsa. Non è solo un mezzo utile a conseguire l’obiettivo organizzativo. Ognuno è prima di tutto una persona unica, originale e irripetibile. Una persona con un proprio progetto esistenziale e lavorativo. Così in ogni relazione interpersonale siamo oggetti e soggetti di sentimenti ambivalenti. Il desiderio di stima, il bisogno di affetto e la necessità del consenso a volte si realizzano rendendo ostensibili i risultati positivi conseguiti nei compiti. A volte si realizzano estendendo il successo delle dinamiche relazionali. Qui entrano in gioco l’immagine di sé, l’autostima, il sentimento di colpa nel temere di fare del male agli altri con le proprie decisioni. A molti non piace essere visti come professionisti duri, colleghi insensibili, persone cattive».

E qui Ebe aveva sollevato lo sguardo verso il papà.

«Per questo, più che per educazione, evitiamo di dire e fare cose che possono risultare sgradite ai propri interlocutori»,

lesse pensando alla sua mamma. Ecco – pensò fulminea Ebe – tendiamo a considerare “buono” chi privilegia le relazioni, chi difende le persone anche a scapito dei risultati e delle azioni di lavoro. E a considerare “cattivo” chi privilegia il compito di lavoro e i risultati a scapito delle persone. Sicuramente – Ebe ne era sempre più convinta – è da qui che nasce la preoccupazione principale del capo degli aiutanti di Babbo Natale: ciò che sta più a cuore a chi svolge funzioni direttive è di essere considerato buono o cattivo. O di apparire, oltre ogni dubbio di irragionevolezza, buono o cattivo.

«E così, dopo che mese dopo mese i nostri luoghi di lavoro sono il palcoscenico di un sistema di valori guidato da quella cultura che Franco Fornari definisce paterna e volta a sostenere e promuovere meriti, competenze e differenze, ecco il cambio scena dell’ultima settimana dell’anno! Via alle quinte di quella che lo stesso psicoanalista definisce cultura materna e caratterizzata da una prevalenza affettiva centrata sui bisogni, sull’accompagnamento dei più necessitanti e sui sentimenti di uguaglianza. Un avvento che oggi abbandona la valorizzazione dei meriti e delle competenze a favore di una tutela dei bisognosi. Dell’appianamento delle differenze. Del diamo a tutti, perché siamo – appunto – più buoni».

Che detto sotto l’albero – sussurrò tra i denti la saggia Ebe – è come se nei nostri luoghi lavorativi ci si aspettasse che il regalo da scartare sia oggi l’epifania di colleghi, capi e collaboratori che, abbandonate le vesti di meritocratici paladini delle competenze e del raggiungimento dei risultati, vestano gli abiti benevoli dei paladini delle relazioni interpersonali. Riprese in mano il libro.

«Cosa distingue oggi il bene dal male? Chi guida le nostre opinioni su cosa sia giusto e cosa sia ingiusto? Come controlliamo le nostre percezioni per poter dire cosa sia equo e cosa sia iniquo? Anche in una società che finge di credere sempre meno a Babbo Natale, che s’illude di trasformare le dinamiche del dono in mutui affari per chi dà come per chi riceve, che ha assistito attonita al tramonto dei valori ritenuti immutabili dalla nostra tradizione, la percezione di cosa sia buono e di cosa sia cattivo rimane il fattore chiave. Una leva interpretativa capace di influenzare i nostri comportamenti. La nostra soddisfazione nell’agire il ruolo che abbiamo. La motivazione con cui facciamo il lavoro che facciamo. La nostra capacità individuale. Il nostro modo di stare nei gruppi di lavoro».

Ma allora ha ragione Ada – urlò Ebe facendo tremare tutta la famiglia – conviene, quando serve, saper essere anche cattivi! Corse su per le scale. Entrò in camera sua. Aprì rapida tre cassetti prima di trovare quel foglio di carta da lettere. Si sedette alla scrivania. Sfoderò la stilografica delle grandi occasioni. Fece un gran respiro e scrisse la sua di lettera:

«Caro Babbo Natale, ti chiedo di farmi diventare una manager. Un manager cattivo. Perché il mondo è pieno di gente buona. E tu solo sai quanto danno fa».

 

Nota: questo articolo è uscito nella rubrica Creattivamente di TouchPoint Magazine, nr. 10, 2023-24 (pp. 10-11).