Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quel che dice Marco Polo quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie, ma

d’altra parte, da qualche altra parte, è pur sempre una questione di fiducia. Non credete anche voi? Fiducia e credito. Due dimensioni intimamente intrecciate nelle relazioni umane in cui credere. Relazioni complesse, queste. In un mondo caratterizzato da informazioni in continua evoluzione, la fiducia diventa un atto di equilibrio delicato. E la credenza un passo pesante che richiede attenzione. Qui lo scetticismo dell’interlocutore ci ricorda il nutrimento della fiducia: le relazioni si costruiscono su di un patto fiduciario reciproco e si nutrono di quel sano discernimento che sta alla base della diffidenza, se

certo l’imperatore dei tartari continua ad ascoltare il giovane veneziano con più curiosità e attenzione che ogni altro suo messo o esploratore.

Eccola, la fiducia come processo dinamico. Ben più complesso del compito del riferire dimesso. Ben più audace del ricognitore che procede per sommi capi. Eccola, la fiducia basata sulla valutazione continua delle informazioni e delle azioni degli altri. Quella che solo attraverso la comprensione profonda e la trasparenza reciproca può essere coltivata in modo autentico nelle interazioni umane. Perché ambasciator non porta pene ma porta prove.

Nella vita degli imperatori c’è un momento, che segue all’orgoglio per l’ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato,

un momento che nasce di contrasto. Un momento in cui l’umiltà emerge come virtù essenziale. Questo momento segna una profonda riflessione sulla vulnerabilità umana e sulla transitorietà del potere. L’umiltà richiede un riconoscimento dell’infinitesimale dimensione dell’individuo di fronte all’immensità dell’universo. Davanti al quale nulla è l’ampiezza del proprio governo. Ma è un nulla che, accettato con umiltà, implica una connessione empatica con gli altri. Comprendendo che ognuno di noi è solo un piccolo ingranaggio di un meccanismo più grande. È attraversando l’umiltà, infatti, che i leader possono scoprire la saggezza più profonda, quella che sta nella capacità di apprendere dagli altri. Di ascoltare. E di riconoscere un’umanità condivisa, con cui ispirare attraverso l’esempio e la gentilezza e sostituirsi

alla malinconia e al sollievo di sapere che presto rinunceremo a conoscerli e comprenderli;

perché anche al leader più saggio la comprensione totale è spesso fuori dalla propria portata. La complessità delle relazioni e nelle relazioni è densa di misteri, di domande senza risposta, di indizi ingannevoli. Accettare la nostra limitata comprensione del mondo può portare a una pace interiore. Rinunciare alla ricerca ossessiva della conoscenza assoluta può liberarci dal peso dell’incertezza. Accogliere il limite permette di abbracciare il mistero e apprezzare la bellezza dell’incomprensibile. E di godere del suo fascino che deriva non da una rinuncia vissuta come atto d’ignoranza, quanto piuttosto da una saggezza agita nel ritrovare contezza nei propri limiti e contentezza nell’imperfetto. Fino a poter assaporare

un senso come di vuoto che ci prende una sera con l’odore degli elefanti dopo la pioggia e della cenere di sandalo che si raffredda nei bracieri;

chiedetelo a un musicista: cosa è il vuoto se non musica silenziosa tra due note? cosa è il silenzio se non una pausa, quiete in mezzo alla frenesia del mondo che urla? cosa è una pausa se non l’occasione per dare senso alle nostre emozioni e ai pensieri più profondi. E chiedete sempre allo stesso musicista: cosa può anche essere il vuoto se diverso da questo? Il luogo in cui evocare sentimenti di perdita e solitudine, di minaccia e paura, di disorientamento e perdita di centratura. Tuttavia, è proprio in questo spazio vuoto che dobbiamo scoprire nuove prospettive e connessioni, aprendo la strada a nuove opportunità di crescita e comprensione. Il vuoto che odora di fertile terreno per l’auto-riflessione e la trasformazione personale. Esperienza essenziale nella nostra ricerca di significato e realizzazione. Anche a rischio di provare

una vertigine che fa tremare i fiumi e le montagne istoriati sulla fulva groppa dei planisferi, arrotola uno sull’altro i dispacci che ci annunciano il franare degli ultimi eserciti nemici di sconfitta in sconfitta, e scrosta la ceralacca dei sigilli di re mai sentiti nominare che implorano la protezione delle nostre armate avanzanti in cambio di tributi annuali in metalli preziosi, pelli conciate e gusci di testuggine:

c’è forse leader che non abbia mai provato una vertigine che minasse la propria percezione del mondo? Le fondamenta delle proprie conquiste? La propria stabilità? È la complessità del tutto che mostra la fragilità delle scrostate ambizioni umane. Ossessioni di grandezza e di controllo. Un’umanità relazionale che si tende tra debito e credito, fin che

è il momento disperato in cui si scopre che quest’impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo, che il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina.

Il tutto è di più della somma delle singole parti. Il tutto è un sistema complesso, un intreccio di entità minime, differenti e originali, che interagiscono fra loro. È necessario analizzarlo come sistema. Analizzarne la forma complessa e complessiva. Spesso celata.

Solo nei resoconti Marco Polo, Kublai Kan riusciva a discernere, attraverso le muraglie e le torri destinate a crollare, la filigrana d’un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti.

Con un obiettivo: prendere consapevolezza. Di cosa? Dell’effetto che tali interazioni hanno fra di esse e che va ben al di là delle caratteristiche dei singoli elementi. Come? Concentrandosi sulla contrapposizione che genera significato. Sulle caratteristiche che derivano dalla relazione granulare tra i membri di una comunità. Perché?

Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.
– Ma qual è la pietra che sostiene il ponte? – chiede Kublai Kan.
– Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra − risponde Marco, − ma dalla linea dell’arco che esse formano.
Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo. Poi soggiunge: – Perché mi parli delle pietre? È solo dell’arco che m’importa.
Polo risponde: – Senza pietre non c’è arco.

 

Nota: questo articolo è un personale e affettuoso omaggio a Le città invisibili (1972) di Italo Calvino ed è uscito nella rubrica Creattivamente di TouchPoint Magazine, nr. 9, 2023 (pp. 10-11).